2/08/2015

Ci vediamo nel nuovo sito - Mantenere la parola

Care e cari, ci vediamo e ci leggiamo nel nuovo sito & blog,
www.beppesebaste.com
Anche se è ancora in progress, cioè in costruzione, il blog mi pare già funzionante.
Vorrei chiamarlo così: "mantenere la parola".
Lo stesso nome del mio primo seminario di scrittura creativa (credo tra i primi in Italia: avevo 24 anni), dove parlavo di tutto meno che di scrittura creativa (ma si leggevano bellissimi racconti, tra l'altro).
Sarà lì che scriverò d'ora in poi.
Sarà da lì che annuncerò, anzi offrirò in lettura, il nuovo libro che ho finito da tempo.
A presto quindi, un caro saluto,
beppe s.

12/28/2014

Banlieue o prateria virtuale, la comunità possibile della letteratura. Un annuncio.


Interessa a qualcuno parlare di libri di letteratura?
   Il fatto è che per l’universo degli scrittori e degli editori di letteratura la situazione è oggi a dir poco incresciosa (come per la politica, d’altronde).
   Poco tempo fa ho letto una lucida analisi scritta da Antonio Paolacci (già editor in passato di una piccola casa editrice), a nome della nuova associazione editoriale Progetto Santiago. Non entro nel merito delle loro proposte, ma vorrei riproporre alcune frasi di questo documento:
  
   “Concepite come aziende interessate al profitto, molte case editrici importanti da qualche anno affidano a consulenti di marketing e comunicazione anche le proprie scelte artistiche, culturali e letterarie. Sono diventate così aziende che, per aumentare i guadagni, mirano al cosiddetto “pubblico di massa”, di certo più numeroso, ma anche, per definizione, meno interessato alla lettura. 
Tali strategie sono oggi dominanti nell’intero mercato editoriale. In più, fenomeni quali l’aumento delle librerie di catena o le modifiche del sistema distributivo schiacciano tanto i librai quanto gli editori indipendenti. 
La reperibilità dei titoli in libreria e la loro divulgazione a mezzo stampa (recensioni e consigli di lettura sui media) dipendono ormai quasi esclusivamente da esperti di vendite quali distributori e librerie di catena, oltre che da accordi economici tra alcuni editori e la stampa (pubblicità, più o meno esplicita) e tra alcuni editori e librerie (affitto degli scaffali, degli spazi pubblicitari, delle vetrine). Tuttavia, i lettori restano in gran parte convinti che la maggiore visibilità in libreria o nei media sia dovuta a una maggiore qualità dei libri più in vista. L’idea di scrittore e quella di editore si stanno gradualmente perdendo: a entrambi non sono più richieste professionalità, originalità, competenza, ma solo le capacità necessarie a imporsi in un mercato concepito per non-lettori…”

   Sono frasi molto vere. La crisi dell’editoria sarà anche economica ma è soprattutto culturale: la logica del marketing ha sostituito ogni altro codice e strategia. È come nella politica, il cui estremo scandalo non è la corruzione, ma il sottoporre preventivamente a un sondaggio le idee e i programmi per scegliere poi quelli da adottare. Nell’editoria, affidare a esperti di marketing le scelte editoriali è qualcosa di assolutamente nefasto per il destino di quella pratica e universo di linguaggi e testi che si chiama “letteratura”.
   Nell’editoria di oggi, nell’orizzonte generale dello scrivere e del pubblicare (che non sono sinonimi), c’è quindi una solitudine immensa dell’autore, il quale, nella generale alienazione e sofisticazione del mondo editorial-letterario, ignora perfino la qualità stessa della propria scrittura, e le ragioni per cui viene pubblicato.
   Qualche anno fa, in una memorabile lettera al direttore de la Repubblica sulla rimozione della cultura in Italia, il regista Bernardo Bertolucci chiedeva, contro la censura e l’autocensura imperanti: “un film come Novecento sarebbe possibile oggi, nella sua libertà, nella sua utopia produttiva, nella sua megalomania, nell’estremismo delle sue contraddizioni? […] Mi torna in mente anche Salò, l´ultimo Pasolini, girato negli stessi mesi e a poche decine di chilometri, film atroce e sublime. Sarebbe possibile oggi Salò?” [Seguì a ruota un mio pezzo su l’Unità e su aprileonline intitolato “Intellettuali da marketing”, ripreso col titolo “Politica significa immaginare” quiinsieme all'intervento dell'amico Bertolucci].

   Credo che oggi, nella nostra società anestetizzata, l’area di ciò che non risulta possibile fare, produrre e pubblicare si sia ampliata a dismisura. Quello che manca, rispetto agli anni Settanta, è però un’area di sperimentazione condivisa, un’officina variegata della controcultura che sopperisca alla censura, al restringimento dell’orizzonte del dicibile e del visibile. Quello che manca forse, ed è il dato più drammatico, è una comunità. Non credo possa esistere letteratura senza comunità, credo anzi che lo "spazio letterario" sia esattamente il luogo fondativo della vita comune, ciò che crea e popola moltitudini, comunità plurali.

   Tutto questo è per me la necessaria premessa per qualcosa che voglio annunciare. La decisione di affidare all’universo del web, all'inizio del nuovo anno, il mio ultimo, se si può chiamare ancora così, libro (un romanzo alla mia maniera). Il quale, da quanto mi pare di capire, e per usare il linguaggio in vigore, sembra essere troppo letterario (cioè troppo se stesso, non abbastanza snaturato da risultare commerciale e liquido, troppo imprevedibile, troppo poco markettaro (da marketing), troppo per i cazzi suoi, troppo poco apparentabile ad altri centocinquanta titoli analoghi e collaudati, e via dicendo) per risultare facilmente pubblicabile.
   È buffo, ci si sente un po' dei fuorilegge, dei fantasmi, dei clandestini (che è poi il sentimento di cui parla il mio libro e che attraversa tutte le sue pagine). Come se la pratica della letteratura fosse messa al bando, condannata cioè a vivere nella banlieue. Ma sono i margini che fanno la pagina, diceva un filosofo, e non c'è nulla di meno marginale della questione dei margini. Penso anche alle molte case editrici i cui libri sembrano specie di tombe della scrittura alla deriva, o condomini in cui si vive come dentro loculi, e mi viene lo sconforto.
   Non è che abbia le idee molto chiare su quello che significa pubblicare in rete, è un'esperienza nuova, per questo eccitante. A volte mi sembra una specie di prateria (e magari fosse così - accendere un fuoco la sera, fare bivacchi e festa all'aria aperta). Sarò grato a consigli più esperti. Non si può diffondere nulla senza solidarietà e condivisione, ma non può esserci giustamente condivisione senza un senso di comunanza, di riconoscimento di/in una qualità. Ce la farò a trovare una comunità cui non solo fare approdare, ma in cui far vivere e proliferare questo “libro”? Un po’ come nel popolo di alberi di cocco banani e palme che si vede sopra, in cui ero immerso fino a pochi giorni fa nel sud dell’India.
   Vorrei conoscere le vostre reazioni. Posterò questi prossimi giorni l'introduzione al libro, le prime dieci pagine circa.
   Buona fine anno.

12/07/2014

Teatro e fantasmi. Per salutare Mario Prosperi e ricordare il Politecnico

Mentre apprendo adesso della scomparsa di Renato Mambor, io sono ancora rimasto al 19 novembre: ero già in India quando è morto Mario Prosperi, uomo di teatro - attore, regista e drammaturgo - intellettuale colto e impegnato. Mi dispiace molto, e mi dispiace immensamente anche per Rossella Or, colla quale Mario ha vissuto un lungo sodalizio nel lavoro e nella vita. 
   Ritrovo, per ricordarlo, un articolo che scrissi su una passeggiata con lui lungo l'itinerario dei teatri fantasma di Roma, i teatri chiusi e scomparsi.  Il fenomeno mediatico del "Valle occupato" doveva ancora esserci, pochi si curavano della fenomenologia della sparizione dei teatri, del fatto che il numero dei morti superasse di gran lunga quello dei vivi. Dove vanno le memorie dei teatri? Pensateci: come si presenta un teatro fantasma, che già al suo nascere è un caravanserraglio di fantasmi?
   Mario Prosperi fu molto abbattuto dallo sfratto, cioè dalla scomparsa, del Teatro Politecnico che lui per anni generosamente aveva gestito e fatto vivere, o sopra-vivere. Al punto che la scomparsa di Mario e la scomparsa del Politecnico nella mia testa quasi adesso si sovrappongono, anche se i suoi ultimi anni sono stati intensissimi di lavoro, di idee, di teatro.
   Quello che segue è l'articolo istigatomi da Mario che uscì l'11 ottobre 2008. Il titolo redazionale fu: "Addio Politecnico, ultimo palcoscenico di un'avanguardia poetica e gioiosa". Per Mario.


   Scrissi anni fa in un racconto: «Avevo dimenticato il Teatro Politecnico, e gli alti, vertiginosi palazzi che ne circondano il cortile d’entrata. Ci andavo tanti anni fa a prendere un’attrice, giovane quasi come me e già orfana di un mondo, l’avanguardia teatrale degli anni '70. Lei recitava ragazza al Beat 72, io volevo essere un poeta beat (...) e forse pensavo a lei quando più tardi dissi questa frase: sei un prato di periferia che è sopravvissuto. Quando imparai che a brillare di più sono le stelle spente. Anche il Politecnico ha l’aria di uno spazio superstite, e dimenticare, oggi, si dice “salvare in memoria”...». L’attrice in questione è Rossella Or, che ha percorso ogni via: il “teatro immagine”, concettuale, quello analitico-esistenziale e il teatro di parola, e da anni va in scena al Politecnico. Lo aprì nel 1974 il coltissimo drammaturgo, regista e attore Mario Prosperi (già sceneggiatore de l’Odissea e l’Eneide televisive), con un testo dal titolo Frantz Fanon psichiatra in Algeria (da un capitolo de I dannati della terra). Ristrutturato negli anni, è nell’elenco dei teatri storici da salvaguardare. Ieri vi sarebbe iniziata una rassegna dal titolo “L’Islam e noi”, patrocinata dal Comune di Roma (primo spettacolo, I fiori del Corano di Marc-Emmanuel Schmidt). Ma la sala di via G. B. Tiepolo (Flaminio) è stata sigillata dall’ufficiale giudiziario dieci giorni fa. Mario Prosperi non può rientrare a recuperare le sue carte. Non scompaiono solo gli insegnanti, le scuole, forse i giornali, ma da anni i teatri. Il loro elenco sul giornale, un tempo, era una pagina. Ora si dà quasi per scontato che il teatro non esista più. Sparito quello “di ricerca”, le “cantine” inventate negli anni Sessanta sull’esempio di Carmelo Bene. Ora, se fare teatro è già in sé avere a che fare coi fantasmi, che ne è di quelli spenti, chiusi e abbandonati?
   Da tempo pensavo di commemorare i teatri scomparsi, i teatri fantasmi, non in cerca d’autore, ma di destino. Ma teatro è anche da sempre simbolo di democrazia, come la piazza. Cosa resta di quella democrazia proliferante, disseminata, dei teatri che hanno fatto il fervore di un' epoca, quegli anni Sessanta e Settanta che non furono di piombo ma di carne? Lo scorso maggio, all’università la Sapienza, un convegno coordinato da Silvia Carandini era dedicato alle “Memorie dalle cantine. Teatro di ricerca a Roma negli anni ‘60 e ‘70”, con la partecipazione di testimoni e protagonisti, Mario Prosperi e Rossella Or compresi. Ironia della sorte, il convegno si teneva al glorioso Teatro l’Ateneo (vi venne tra gli altri il Living Theatre), oggi chiuso e spento.
   Oltre al Politecnico, sono chiusi o in procinto di esserlo il teatro di Ostia Lido, il Tordinona, forse il Vittoria. Che si aggiungono a un elenco molto lungo. Eppure, dal Teatro Laboratorio di Carmelo Bene - nel cortile al n. 23 di Piazza San Cosimato, chiuso nel '63 dalla polizia per atti osceni - i teatri ricavati da cantine, cortili e garage furono una sperimentazione vitale di espressioni e linguaggi senza cui non si sarebbero sviluppati la poesia, il cinema, la danza. Personalmente conto tra i primi incanti estetico, sorta di risveglio, l’odore di sandalo emanato dal corpo di un’attrice in scena, che mi rivelò l’evidenza della natura fisica, erotica del teatro.
   È nei piccoli teatri che si percepisce il volto - mi dice Prosperi - «il primo piano degli attori come al cinema, il loro respiro e tremore». Il nostro pellegrinaggio inizia col Beat 72, al civico 72 di via G. B. Belli, di fronte al Visconti Palace. Lo inaugurò nel '66 Carmelo Bene con Nostra Signora dei Turchi, Rossella Or vi debuttò in Pirandello chi? di Memè Perlini nel ‘73. Lo gestivano Simone Carella e Ulisse Benedetti, organizzatori del primo festival di poesia a Roma. Chiuso nel ‘91, ora c’è uno studio di architetti, leggo sotto il citofono. Ricordo i muri bianchi e la moquette rossa. Rossella si ricorda il buio, e nel buio il palcoscenico prospettico e i tre piccoli archi. Lì vicino c’era l’Alberico. «È nato un altro teatro a Roma, è in via Alberico II, prima il locale era un garage, adesso è un luogo doppiamente usabile: al piano terreno una sala grande, sotto, nella buca che serviva per lavorare sotto le automobili, è scavato un altro spazio...». Così, il 30 dicembre 1975, il critico de l’Avanti! salutava il debutto teatrale di Roberto Benigni. Nella “buca”, detta Alberichino, Benigni recitò il monologo Cioni Mario, di Giuseppe Bertolucci. Oggi è un ristorante con musica dal vivo, funky e dance, bancone hitech. Vi vennero lo Squat Theatre di New York con Andy Warhol, Last Love, e tanti protagonisti del teatro d’avanguardia. Frazione del Beat 72, era gestito da Bruno Mazzali e Rosa de Lucia. La chiusura dell’Alberico, ricorda Prosperi, fu voluta scandalosamente nell' 82 dall' allora ministro dello Spettacolo, il democristiano D’Arezzo, per farne lui un banale ristorante. Mazzali e De Lucia aprirono il Trianon, con Leo De Berardinis e Perla Peragallo, e il gruppo Odradek di Gianfranco Varetto (allievo di Ripellino). Oggi il Trianon è un cinema multisala, come l’Intrastevere – anch’esso un tempo teatro dove Remondi e Caporossi fecero cose importanti. Ma finché è il cinema a soppiantare il teatro, in fondo è una cosa “naturale”, e forse una nèmesi per chi, come Memé Perlini, faceva teatro pensando in realtà al cinema. Siamo ora in via Benzoni 53, una rientranza della strada che costeggia le ferrovie, sotto la Garbatella. Qui c’era La Piramide, aperta da Perlini alla fine degli anni Settanta, chiuso dieci anni dopo. Per un lungo periodo in quell’ex garage non vi fu nulla. Ora è una palestra. E a proposito di nèmesi: pare che lo storico palazzo sul Lungotevere Tor Di Nona, che ospita ora l’Istituto della Provincia per le case popolari, di fronte al Palazzaccio, diventerà un albergo di lusso. È la ragione dell’annunciata chiusura del Teatro Tordinona, sul retro del palazzo, via degli Acquasparta. Chi voglia provare qualche sensazione legata ai vecchi teatri scenda le scale e assapori la qualità del silenzio. Questo luogo appartato, inaugurato da Pirandello, dal '79 è diretto da Renato Giordano. Vi andò in scena Paul Newman. Vide prime mondiali di Tennessee Williams e di Fassbinder. In via Sicilia 57-59, traversa di via Veneto, c’è la palazzina bianca, stile razionalista come la Sapienza (è della stessa epoca), del Teatro delle Arti. Fu qui che il giovane Carmelo Bene presentò il Caligola di Albert Camus nell’ottobre 1959, sotto lo sguardo entusiasta di Anton Giulio Bragaglia, geniale artista che condusse il teatro dagli anni ‘30 (e prima ancora il Teatro degli Indipendenti). Il Teatro delle Arti è stato chiuso negli anni 90, e da allora abbandonato al nulla.
   «Il teatro è un mistero», mi dicono Mario Prosperi e Rossella Or alla fine della passeggiata. «Quando pensi che sia morto rinasce. Riappare e diventa popolare quando la società è a pezzi. Non ha continuità, esiste a sprazzi, come i temporali. Come a Weimar, un paese morto e un teatro che mai fu così vivo. Il teatro è importante nei momenti di crisi. Non ha bisogno di grandi mezzi produttivi come il cinema, è libero, immediato, anarchico, straordinariamente fresco e vicino agli eventi».

12/05/2014

Bhopal, il genocidio dei poveri


   Ho visto il film Bhopal uscito oggi in prima mondiale a trent'anni della più grande catastrofe industriale della storia. L’ho visto in un cinema assurdamente lussuoso di Calcutta (poltrone reclinabili con appoggiapiedi come in aereo prima classe, e servizio bar), dentro un mall, un centro commerciale, uno di quei posti in cui paradossalmente nessuno degli indiani di cui parla il film potrà mai permettersi di andare. Avevo pensato di proporre a dei giornali italiani un mio reportage da fermo, ascoltare e registrare le reazioni del pubblico indiano alla fine del film; non lo farò, forse è meglio così, perché dovrei dire che la sala era semivuota, che l’India quanto a conservazione pubblica della memoria, quanto a strategie di distrazioni di massa, non ha motivo di fare eccezione. Per non dire di quei milioni, comunque sia, esclusi dal circuito dell'informazione, ciò che fa sì che una tragedia così, un tentato genocidio di poveri come quello di Bhopal, potrebbe virtualmente sempre ripetersi. (Ci sono altre sale di cinema a Calcutta, dette governative, il cui ingresso costa poche rupie, "fetide e bellissime", come le definisce un amico. Ci sono passato, le locandine dei film sono dappertutto le stesse: Kamasutra 2, le cui immagini promettono quello che il titolo annuncia. Ma nessuna traccia di Bhopal tra i film per poveri.) 

   Nella notte tra il 2 e il 3 dicembre del 1984, a Bhopal, nello stato indiano del Madhya Pradesh, dalla fabbrica americana di pesticidi Union Carbide, che già normalmente produceva veleni letali che diffondeva nell’ambiente,  inquinando terra e acqua col veleno chiamato isocianato di metile, più noto con l’acronimo inglese Mic, fece fuoriuscire una nube di gas che provocò in pochissimo tempo decine di migliaia di morti e oltre mezzo milione di feriti, senza contare i danni permanenti anche nei nati di varie generazioni successive. C’è un libro che racconta contesto e tragedia come un thriller, Il était minuit cinq à Bhopal (Mezzanotte e cinque a Bhopal), di Dominique Lapierre e Javier Moro, e anche il film firmato da Ravi Kumar è una specie di thriller. Provoca negli spettatori, pur conoscendone la fine o forse proprio per questo, una tensione  quasi insopportabile. Ma ci sarà un motivo (estetico, quindi etico) se per illustrare Bhopal e questa breve cronaca non uso un'immagine del film "americano", ma una fotografia della realtà in bianco e nero, più congruente.
   La prima cosa del film che mi ha colpito è la prima inquadratura, cioè la data sapientemente isolata sullo schermo: 1984. È quasi un messaggio subliminale: l’anno di Orwell, l’anno della distopia, in questo caso della catastrofe che svela l’insensatezza assoluta e crudele del capitalismo tardo industriale, dei meccanismi della nostra civiltà; che svela il circolo vizioso e demoniaco del profitto – fabbricare un prodotto che uccide i presunti parassiti, anzi che uccide l'erba, ed esserne le prime vere vittime, quelle umane.
   Forse i pesticidi e i diserbanti servono proprio a questo, ti viene da pensare, a sterminare i disgraziati che lavorano alla fabbricazione dei pesticidi, perché solo altri parassiti possono lavorare in circostanze di tossicità permanente all’unico scopo di sopravvivere e moltiplicarsi, fabbricando prodotti per sterminare presunti parassiti.
   I parassiti - per uno strabiliante rovesciamento della logica che passa invece come apoteosi della realtà e quindi della razionalità - sono i poveri, le vite gratuite  disponibili al lavoro, qualsiasi lavoro, e il 1984 è l’anno in cui viene alla luce questo mai cessato genocidio, o pesticidio, questo circolo tossico così finanziariamente proficuo..
   È in questa chiave che diventa sopportabile l’ennesimo affresco americano, o comunque western, della città indiana polverosa, dell’iconografia coll’immancabile cane in primo piano che si gratta, le mucche, i rifiuti, i bambini che giocano nel fango, i volti sorridenti malgrado la povertà, e il conduttore di risciò ciclabile magrissimo e affaticato col passeggero sazio e ciccione che cade rompendogli il risciò, come a dire l’ingiustizia. A me personalmente non disturba, mi commuovono anche i cliché, mi commuovono le icone protettive delle divinità appese ai fili e ai tubi dentro l’orrenda fabbrica, come sono appese a volte ai rami degli alberi. Ma alle mie amiche e amici indiani questa stilizzazione dà fastidio. Come il personaggio interpretato da Martin Sheen, un volto famoso, forse l’unico del cast, che dovrebbe essere il malvagio, principale responsabile dell’Union Carbide e quindi della fabbrica di morte, il boss Warren Anderson, il cinico venditore di diserbanti per aiutare i contadini indiani, che in visita a Bhopal minimizza l’evidente tossicità dei prodotti della Union Carbide, e in un comizio fatto dall’alto della fabbrica agli operai indiani in basso, parla cime un cowboy citando la retorica del lavoro, della solidarietà e del cuore (toccandosi il petto), facendoli commuovere. Ai miei amici indiani questa spettacolarizzazione americana dà fastidio, e hanno ragione riguardo al personaggio, ma nell’ingenuità degli operai indiani che lo ascoltano vediamo l’ingenuità di noi tutti esseri umani viventi, da sempre affascinati dai cowboy. E poi il lavoro è lavoro, come sa il conduttore di risciò a piedino rimasto senza risciò, felice di essere assunto e di indossare l'inutile casco di operaio, felice di "appartenere". Quanti piccole o piccolissime "bhopal" sono attive in questo momento in India (e non solo), quante illegalità, corruzioni (senza le quali una Union Carbide non avrebbe potuto agire) si verificano quotidianamente?
   Di lavoro si muore, come sapevano freddamente i nazisti inventori dei campi. Il finale del film è infatti l’inizio di un film di zombi, la più terribile ma anche la più bella parte del film. La vivace città dei poveri è una città di cadaveri, alcuni dei quali, ciechi, all'alba ancora camminano.
   Sappiamo che quel luogo a distanza di trent’anni non è stato ancora bonificato. Che giustizia non c’è stata in alcun modo, e il responsabile principale Warren Anderson è morto comodamente di morte naturale in casa propria, senza essere mai condannato né estradato, così come non è stato mai estradato in India alcun responsabile di questa strage prevedibile e forse prevista, forse addirittura pianificata, costantemente smentita, mai risarcita, poiché gli indennizzi stabiliti da una sentenza per i morti sono irrisori (2000 dollari a persona). Il film si conclude con una scritta sullo schermo: “L’Union Carbide non ha mai chiesto scusa”.

   Nel 2011 è stato premiato in numerosi festival un altro film, il documentario di Van Maximilian Carlson dal titolo Bhopali. Come sottotitolo ha questa frase: Il disastro non è avvenuto. Sta avvenendo. Soprattutto non finisce con la fine di un film, e i suoi effetti continuano nel tempo, anche fuori dal cinema, da cui usciamo storditi e un po’ choccati, nell’insensatezza del rumore della città e delle luci delle merci.

I poveri sono ricchi


A Calcutta
dove i cani sembrano morti di giorno ai bordi delle strade
i taxi gialli vanno così in fretta che ucciderebbero
pur di non far attraversare la strada a qualche vecchio,
corrono verso Park Street o al Bengal Club dove
lasciano giù tutti quei poveri che si danno da fare
per sembrare ricchi.
Bisogna andare fuori dal centro nel fitto della foresta
urbana nei vicoli stretti come rivoli in villaggi
nascosti dal traffico
per trovare i ricchi veri, quelli che si siedono per terra
contemplano davanti a sé,
sentire il sollievo di trovarsi in ZTL naturali
le nicchie dei miserabili col silenzio, i cani vivi, le statuine
colorate e le immagini delle Divinità alle radici di un un albero-
tempio.
I veri ricchi sono i poveri che lavano il gradino di marmo
del tempietto all’angolo della strada, recto verso,
da una parte Kali dall’altra Hanuman,
che offrono ghirlande di fiori e tempo per fermarsi e pregare,
l'atto più regale dell’uomo.
I poveri non lo sanno di essere poveri, non
invidiano nessuno, 
bisogna essere molto ricchi per essere così poveri
da offrire se stessi al Divino in silenzio
come i cani che sembrano in trance
dare il proprio tempo a contemplare
vivere una vita così ampia e aperta rivolta al Divino
(cosa c’è più lussuoso del
Divino?)
una vita che i ricchi, poveracci, non hanno il tempo
di concedersi con tutti gli impegni, gli intrattenimenti
e questo li rende infelici.
I poveri, che non sanno di essere poveri e popolano
la vita di lunghe gratuità,
si accampano sotto i muri di cinta
delle ville dei ricchi come edere, o rose rampicanti,
attaccano immagini delle divinità, li tingono di azzurro,
accendono lumini cuociono dentro pentole dormono
coi loro bambini che giocano per terra come i cani
mentre dietro le mura i ricchi si annoiano in solitudine
perché non hanno tempo,
e vanno ai vernissage.
I poveri beati loro hanno tutto il tempo per pregare
e prosternarsi,
sgranare gli occhi di felicità al cielo e ai passanti,
epifanie del Divino, offrire loro una mano aperta,
hanno tutto il tempo per innamorarsi del Divino,
contemplarlo a mani
aperte.
(Calcutta, fine novembre 2014)

11/21/2014

Tutto quello che resta (lettera da Calcutta sulla poesia)

Ieri a Roma alla Galleria la Nuova Pesa si è presentato un nuovo libro del mio vecchio amico critico e saggista Paolo Lagazzi - un libro sulla poesia dal bel titolo La stanchezza del mondo. Era previsto un mio intervento, e di fatto anche se non c'ero (sono a Calcutta), pare che fossi presente con questo intervento che, mi dicono, ieri è stato letto. E ora offro qui in lettura.

Caro Paolo,
                     spesso i libri dei critici sulla poesia sono solo un pretesto per parlare dei poeti, questo o quell’altro, in una paradossale autoreferenzialità per interposta persona. È bello che il tuo libro faccia eccezione: i poeti in cui ti sei imbattuto nella vita sono occasione per parlare di qualcosa che ci riguarda tutti e che non serve a nulla, e che forse per questo ci è così strettamente, famelicamente necessario; di parlare insomma di “quello che resta”, come scrivi nell’introduzione, che “resiste”, come dico io, cioè la poesia.
   C’è una tensione ecologica in questo tuo libro - un’ecologia della mente, non dei panda o delle quote - e mi fa venire in mente quando nella primavera del 2010 (io ero sulla “nave dei libri” diretta a Barcellona per la festa di Sant Jordi, festa dei libri e delle rose) un’eruzione vulcanica nel ghiacciaio islandese dell’Eyjafjallajoekull paralizzò il traffico aereo, perché il vulcano dal nome impronunciabile sbuffò una nube di cenere così grande e intensa da far chiudere i cieli.  Pensa: fumo e cenere che mettono in scacco tecnologia, scienza e aviazione. Fu lì, in un’intervista sulla nave, che ricordai come i poeti, “costruttori di vulcani” (cito quasi senza volere il libro del poeta Carlo Bordini), sanno bene l’importanza di cose trascurabili come le nuvole, il fumo, la cenere, tutti sinonimi di poesia - cose che non servono a niente, ma guai a provocarne l’intensità e la forza.
   C’è qualcosa dicevo di ecologico nel tuo libro, cioè di quella consapevolezza di cui ha parlato spesso un nostro amico per spiegare la miracolosa educazione avuta dal padre (tuo poeta prediletto): riconoscere la poesia in quello che aveva intorno, e soprattutto viceversa. La «rosa bianca» cantata dal padre Attilio come dedica alla moglie, Bernardo Bertolucci la scopriva, dice, nel giardino, così come il «rosone tiepido» da cui entra il raggio di sole nella stalla, o «la posta del mattino azzurra fra le mani». Aprire gli occhi e ritrovare la poesia - risonanza di ciò che (r)esiste e accade.
   Le idee sono dappertutto, la mente è molto più ampia del solo cervello, «l’erba ha bisogno del cavallo come il cavallo ha bisogno dell’erba», diceva Gregory Bateson. Il tuo amato Attilio, senza saperlo, trasmetteva un’educazione non diversa dall’ecologia della mente del mio amato Bateson, per il quale tutto è connesso con tutto, gli organismi viventi e i sistemi di idee, la religione e il comportamento degli schizofrenici, il gioco e il sacro, «il granchio con l’aragosta e l’orchidea con la primula e tutte e quattro con me, e me con voi». La lingua di questa struttura che connette credo sia la poesia. E a ognuno di noi accade il corto circuito che accadeva a Bernardo tra parole e cose, e idee, anche se siamo sempre più intossicati e sommersi da un linguaggio alienato, cioè più sottomesso a uno scopo, non importa se politico, pubblicitario, scritto su una scatola di biscotti o detersivo, o su un romanzo a trama…
   Ti chiederai forse quale sia in questo momento il mio personale cortocircuito, sapendomi a Calcutta (Bengala, India). Non che importi dove io sia, ma forse ricordi la frase di Thomas S. Szasz: «Se parli a Dio stai pregando, se Dio ti risponde, allora sei schizofrenico». Diciamo quindi che sono dove sono per meglio confondermi nella folla di poeti e schizofrenici, anche se proprio stamani, mentre voi facevate colazione, mi riposavo all’ombra del giardino della casa natale di Sri Aurobindo, un’oasi nel brusio perenne della città (non molto distante da quella in cui undici anni prima era nato Tagore), e dove appoggiando le mani sulla superficie di marmo ricoperta di petali di fiori ogni giorno freschi di vita nuova, e sentendo sotto quel marmo, tra api gentili e delicate, la forza che vi scorre sotto come un oceano, ho capito improvvisamente il senso della parola samadhi, "raccoglimento", che non è la morte, che non è la tomba, ma che tradurrei con una bellissima parola misteriosa della nostra tradizione, deposizione, nella continuità dell’anima e quindi della vita. Come «l’amore realizzato del desiderio che resta desiderio», definizione di poesia secondo René Char.
   Caro Paolo, anche a occhi nudi, anche a occhi chiusi, tutto quello che resta è poesia, sorriso dell’anima.
   Haribol!!!
Kolkata, 20 novembre 2014


P.S. Qui si può vedere e capire un po' il Samadhi di Sri Aurobindo nello Sri Aurobindo Ashram, (Pondicherry,  Tamil Nadu)


10/09/2014

"Vi sto sorridendo dovunque io sia" (un sorriso a Jacques Derrida a dieci anni dalla morte)

Jacques Derrida had died, on Saturday 9 October 2004, at the age of seventy-four. A heavy silence reigned, but only the people closest to the tomb could hear Pierre reading the few words prepared by his father. Derrida, reproducing his own father’s gesture, thirty-four years earlier, had composed his epitaph himself:
"Jacques desired neither ritual nor prayer. He knows by experience what a trial it is for the friend who performs them. He asks me to thank you for coming, and to bless you, he begs you not to be sad, and to think just of the many happy times that you gave him the chance to share with him.
Smile at me, he says, as I will have smiled at you until the end.
Always prefer life and never stop affirming survival.
I love you and I am smiling at you from wherever I am."
-Benoit Peeters, "Derrida: A Biography", page: 540,41.


Dieci anni fa come oggi morì il filosofo Jacques Derrida, col quale ebbi il privilegio di avere rapporti accademici e personali. La sua eredità nel metodo del pensiero, la cosiddetta filosofia, il "comprendere" - o forse meglio dire l'andatura e il modo di procedere, di viaggiare e attraversare territori, attraversare muri, crearsi passaggi là dove non c'è passaggio né via d'uscita, uscire, cavarsela nonostante ogni aporia, vivere sempre, scegliere di vivere sempre nonostante ogni impedimento, ecco tutto questo credo è incalcolabile e operante, malgrado l'apparente silenzio di oggi. Forse, anzi, è meglio così, dato che il contributo peggiore lo danno quasi sempre i presunti continuatori ed epigoni, i semplificatori e i commentatori.
    (Su Derrida ho scritto anch'io a suo tempo alcune cose disperse in tanti luoghi e testi. Ne ritrovo due: un articolo l'indomani della morte per l'Unità - che, non potendolo linkare come appariva nel deposito di testi del mio sito, perché è in ristrutturazione, lo pesco qui, per esempio; e poi la  relazione, più a freddo, ma altrettanto calda, se non di più, per il convegno "Spettri di Derrida" a cinque anni dalla morte...)